Charlotte Rampling in Hannah, a Bologna

Come è stato incontrare un’icona internazionale: in occasione dell’anteprima di Hannah in Sala Biografilm, Charlotte Rampling riceve il Celebration of Lives Award 2018 a Bologna.

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<<Fin dalla sceneggiatura, già dalla prima parola che ho scritto insieme a Orlando Tirado, ho sempre avuto in mente Charlotte Rampling: è stata lei la mia musa, ma pensare che avrebbe accettato di girare il film era un sogno. La prima volta che ho visto Charlotte al cinema avrò avuto 14 anni, e fu un colpo di fulmine: “La caduta degli dei” di Luchino Visconti, quello sguardo pronto a trafiggerti>>

Andrea Pallaoro

Ha sempre quello sguardo intenso Charlotte Rampling, occhi in cui perdersi, folgoranti e magnetici, che non lasciano scampo e che rivelano e celano contemporaneamente: una bellezza profonda di chi ha una storia importante alle spalle e che può essere nello stesso tempo venata di dolcezza e di un sottile dolore che intuisce ma non si dichiara.

Incontrare Charlotte è incontrare un mondo intero e desiderare ardentemente non dico esplorarlo, ma almeno percepirne un alone lontano, come un profumo persistente di cui senti la scia solo dopo che la donna carismatica e affascinante che lo indossava è passata vicino a te, ma è già lontana.

Charlotte Rampling by Helmut Newton (1974)
Charlotte Rampling ne “Il portiere di notte”

Nata a Sturmer nel 1946, dopo l’esordio cinematografico nel 1964 con Non tutti ce l’hanno” di Richard Lester (Palma d’Oro a Cannes), è lanciata in una carriera inarrestabile che la ha portata a lavorare con i più grandi maestri del cinema: in Italia, tra la fine degli anni ‘60 e la prima metà dei ‘70, lavora con Luchino Visconti (“La caduta degli Dei”, 1969), Giuliano Montaldo (“Giordano Bruno”, 1973) e Liliana Cavani nell’indimenticabile ruolo che fece scandalo ne Il portiere di notte” (1974) e che la fece entrare di diritto nell’immaginario collettivo grazie alla potenza iconografica del suo look e alla sua sensualità innata e trasgressiva.

<<Nel corso delle generazioni la gente continua a vederlo, quindi forse la gente non vuole staccarsi da questo film!>>

L’attrice oggi racconta:

<<Visconti e la Cavani li ho incontrati quando ero molto giovane, avevo poco più di vent’anni e per me sono stati due insegnanti nel loro essere assolutamente diversi l’uno dall’altro, due registi italiani estremamente radicati nel loro mondo, ognuno nel proprio, per cui sono state persone a cui sono molto molto legata. Con Liliana Cavani, ci sentiamo e siamo ancora in contatto, mentre con Visconti ho il grande rimpianto di non aver girato un altro film con lui>>

La caduta degli dei (1969)

In seguito ha lavorato –solo per citarne alcuni- con Woody Allen in “Stardust Memories” (1980),  Sidney Lumet in Il Verdetto (1982), Claude Lelouch, Jacques Deray, Nagisa Oshima, Tony Scott, Lars von Trier, François Ozon (una lunga collaborazione iniziata nel 2000 con Sotto la sabbia e proseguita con Swimming Pool – 2003, European Film Award come Migliore attrice-, Angel – La vita, il romanzo -2007- e Giovane e bella nel 2013).

Non disdegna esperienze nelle serie tv come l’acclamatissima Dexter o Broadchurch. Nel 2015  ha vinto l’Orso d’argento per la migliore attrice al Festival di Berlino con 45 anni di Andrew Haigh e viene candidata ai premi Oscar 2016 come migliore attrice protagonista.

A settembre 2017 ecco la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile al Festival di Venezia proprio per Hannah: dopo il successo internazionale di Medeas (2013) Andrea Pallaoro, regista nato a Trento nel 1982, che vive e lavora tra Los Angeles e New York- la dirige magnificamente in un’interpretazione personalissima e magistrale, in quello che oltre a essere il suo secondo lungometraggio è anche il primo capitolo di una trilogia incentrata su protagoniste femminili.


Così la Rampling, che abbiamo incontrato al Grand Hotel Majestic Gia’ Baglioni a Bologna – città che ha definito Magnifique, piena di energia e creatività giovane – in occasione dell’anteprima di “Hannah” in Sala Biografilm, accompagnata anche dal ritiro dell’ambito premio Celebration of Lives Award 2018, commenta la sua decisione di collaborare con il giovane ma talentuosissimo regista.

<<Non c’era ancora la vera e propria sceneggiatura ma lui descriveva molto bene la sua ispirazione, la sua visione, come voleva trattare il film dal punto di vista visivo, concettuale, delle emozioni… Dopo aver visto “Medeas”, il primo film di Andrea, che mi è piaciuto molto per lo stile particolare, che non è uno stile comune, in seguito ci siamo incontrati a Parigi e in effetti ho detto più o meno subito di sì. Ho trovato il progetto di Andrea “compelling” nel senso di un progetto che ti trascina, che quasi ti costringe. Mi ha come stregato, si era creata una chimica per cui dovevamo fare questo progetto insieme!>>

<<Ho dovuto fare un certo passaggio: quando arrivi con il tipo di bagaglio di esperienza che ho io, sei una specie di “pacchetto” e da parte mia ho cercato di lasciare perdere tutto questo pacchetto con cui arrivavo e che avevo alle spalle e di creare un rapporto assolutamente nuovo tra me e lui. E questo è quello che è successo abbastanza rapidamente. Il rapporto con un regista è sempre un rapporto assolutamente individuale. Ogni regista è un individuo diverso, quindi il rapporto di ogni attore con ogni regista è sempre diverso, chiunque egli sia.>>

“Hannah” è un film molto intimo e personale che mostra la fragilità di una donna in un momento molto delicato della sua vita, che la porta e decostruirsi per poi necessariamente ritrovare la propria identità  e il proprio posto nel mondo.

<<Hannah mostra un modo di essere che effettivamente forse molte donne  vivono però lei mostra un modo di reagire ad una situazione di crisi e noi nelle situazioni di crisi non sappiamo mai come reagiremo finché non quando ci troviamo dentro quella situazione e anche lei lo scopre piano piano, scopre che man mano tutto cambierà, è come se vivesse sulla sabbia tutto il tempo, dove va un po’ su e giù e vede come vanno le cose.

E forse questo suo modo di vivere questa situazione è il modo che serve a trascinare la gente dentro la sua storia, perché in un certo senso forse ci si può ritrovareSicuramente il film è anche un film sulla solitudine e sull’abbandono, cose con le quali abbiamo la maggiore difficoltà a rapportarci e abbiamo più difficoltà a superare>>.

©BiografilmFestival

<<Riflettere costantemente su se stessi e sull’altro, che poi è anche la rappresentazione di noi stessi, è una fonte continua di domande e di interessi quindi lo trovo molto interessante perché è senza fine >>

La routine a cui Hannah cerca disperatamente di aggrapparsi, tra lavoro, corsi di teatro e piscina, va in pezzi all’indomani dell’arresto del marito. Non è svelato palesemente il crimine commesso e non sono svelati molti perché ma gli indizi per rispondere ai dilemmi che lo spettatore si pone sono lì, nascosti nei silenzi e disseminati tra le pieghe di un dolore inespresso, ma le risposte sono in realtà del tutto marginali.

Al centro di ogni scena c’è Hannah: il suo mondo interiore esplorato senza giudizi morali, un crollo che traspare con inquietante compostezza dai gesti, dagli sguardi, dai brevi momenti di cedimento.

Andrea Pallaoro: <<La scelta di girare in 35mm, come già per “Medeas”, nasce dal mio desiderio di instaurare un rapporto “sensoriale” con lo spettatore: la pellicola possiede una fisicità che il digitale non ha, almeno per ora. Con il direttore della fotografia, Chayse Irvin, abbiamo cercato di riflettere il dialogo costante che c’è tra Hannah e il mondo circostante, prestando molta attenzione al concetto stesso di spazio, in un gioco dialettico tra interno ed esterno, fisico e psicologico, dove elementi come i corridoi e gli specchi – e soprattutto il fuoricampo – acquistano un ruolo fondamentale>>.

<<Credo che tutti gli elementi del film, dalla sceneggiatura alla fotografia al montaggio, cerchino di andare in un’unica direzione condivisa: un lavoro di sottrazione che “ecciti” l’immaginazione dello spettatore nascondendo piuttosto che mostrando>>

<<Il film nasce dalla convinzione che l’osservazione intima di un singolo personaggio, o persino di un singolo stato d’animo, possa riflettere la nostra condizione di essere umani e permettere a chiunque di “specchiarsi” nel personaggio e nella storia>>

<<È questa la catarsi a cui aspiro: dare allo spettatore l’opportunità di riconoscersi, e magari di capire qualcosa in più di sé stesso. Inoltre, Hannah prosegue una sorta di indagine sul confine tra l’identità individuale e quella sociale (in questo caso di coppia): una ricerca che credo faccia parte di uno studio più ampio, un mio interesse personale che già si affacciava in Medeas, dove la tragedia nasceva dall’impossibilità del protagonista, un padre, di affermare il proprio bisogno di controllo, e quindi il ruolo in cui si autoidentificava all’interno della famiglia>>.

<<È da questo tipo di fratture, dovuto a pressioni interpersonali o autoimposte, che nascono i grandi conflitti. Rispetto a Medeas, in Hannah il conflitto è ancora più interiore, e culmina nel momento in cui la protagonista sente venir meno la propria identità e quella del mondo che la circonda>>

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