Suggestioni dal ROBOT 07.3°

Il doc “Haack: The King of techno” e l’incontro intervista con Marco Cecotto.

Nuovo giorno – giovedì 2 ottobre 2014 – nuovo calendario ricco di eventi qui alla settima edizione del ROBOT Festival. 

Almeno oggi c’è il sole ed ho ancora al mio polso il magico “bracciale press”! Mi basterà alzare il braccio per poter entrare presso Palazzo Re Enzo e prendere il mio posto.

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Oggi si inizia alle 19.00 con la proiezione dello screening “Haack: The King of techno” di Philip Anagnos. Tutto scorre in maniera fluida, senza nessun intoppo e riesco anche a scegliere la poltrona pouf che più mi aggrada e che sarà parte di me per i prossimi 70 minuti.

Davanti ai miei occhi viene proiettato il documentario su Haack, il produttore discografico canadese pioniere assoluto dell’elettronica. Quindi quale posto migliore se non qui, in questo festival, per far conoscere al pubblico la sua storia?

Dai suoi esordi non proprio felici, quando respinto dall’Università Musicale di Alberta (sua città natale) a causa delle sue scarse capacità nella stesura e nella composizione musicale, si occupò poi per tutti gli anni ’50 di creare musica per balletti e compagnie teatrali e di comporre canzoni pop per etichette discografiche come Dot Records e Coral Records, fino a passare al primo lavoro importante nel 1955 per “Les Etapes“, dove propone temi e tecniche sperimentali, campionando suoni di archi e voci su nastro.

Sarà però il 1960, con il maggior interesse per la musica elettronica e i sintetizzatori, a far aumentare la notorietà di Haack. Egli, infatti, apparve in programmi TV come I’ve Got a Secret e The Tonight Show con Johnny Carson, di solito con Ted Pandel ad accompagnarlo al pianoforte. In quelle occasioni Haack mostrò alcune sue invenzioni, fra le quali il Dermatron, un sintetizzatore musicale sensibile al calore della pelle.

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Le grandi qualità di musicista di Haack sono esaltate dall’uso di strumenti come sintetizzatori e da nuove tecniche di campionamento e di registrazione; anche se con una scarsa formazione in elettronica, Haack costruì personalmente alcuni suoi sintetizzatori e modulatori del suono recuperando dispositivi come pedali per chitarra, radio a transistor. Rinunciando a schemi musicali precostituiti, utilizzò questi strumenti casalinghi in grado di produrre voci polifoniche o suoni casuali per le sue creazioni.

Nel 1968 pubblicò, con la Dimension 5, un altro disco per bambini “The way out record“, per poi passare negli anni 70 a “The electric lucifer“, un concept album – destinato agli adulti – dai toni onirici che racconta di una guerra immaginaria tra Cielo e Inferno, dove la forza dell’Amore salva tutti, compreso Lucifero.

Nel 1978, uscito da un periodo molto difficile caratterizzato da abuso di alcol e droghe, compose “Haackula” (pubblicato solo nel 2008), un lavoro dai toni cupi e autobiografici dove Haack condannava, con un linguaggio duro e aggressivo, l’ipocrisia e la falsità dei manager discografici, solo interessati al profitto. L’anno successivo compose “Electric Lucifer’s book II” (pubblicato da Pandel nel 2000, come richiesto espressamente da Haack), continuazione onirica della saga di “Electric Lucifer”. Nei primi anni Ottanta seri problemi di salute dovuti al diabete rallentarono la collaborazione con la Dimension 5.

Il 26 settembre del 1988 Haack morì nel sonno per un’insufficienza cardiaca, a Westchester. La Dimension 5, negli anni a seguire, continuò la ristampa dei vecchi lavori.

Benché la storia di questo pioniere è densa di eventi, ho apprezzato la scelta del regista Philip Anagnos di realizzare un documentario estremamente fruibile, grazie all’uso di una grafica molto curata, che spazia dall’uso di silhouette ottocentesche – il classico “teatro d’ombra” – mixate con uno stile pubblicistico tipico degli anni ‘50.

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Ma il festival non permette di crogiolarsi, già alle 20.30 è prevista la performance “Squeezing sounds out of light” di Marco Cecotto presso sala Re Enzo.

Mi permetto, a questo punto e per evitare ripetizioni inutili, una licenza. Ho deciso di far partire la mia narrazione dalla fine dello spettacolo, poiché al termine del quale ho avuto il piacere di parlare con Marco sia della sua esperienza che del live appena eseguito.

A performance ultimata, scruto l’artista spostarsi a sinistra dello stage che lo ha visto esibirsi. Per me è sempre difficile capire quando e se è possibile richiedere, anche se breve, un’ intervista: non si conoscono gli impegni, il carattere e spesso, in quanto emergenti, la storia della persona che hai di fronte. Attendo e controllo con lo sguardo gli spostamenti di Cecotto, fino a quando non lo vedo uscire dalla sala…Mi hanno fregato! Cerco di avvicinarmi per chiedergli la sospirata intervista, con un balzo potrei farcela, ma una giornalista con cameraman mi ha battuto sul tempo! Bene! Ok, inutile crucciarsi! Rimango a debita distanza, neanche troppo, perché approfitto della medaglia d’argento per carpire le domande e di conseguenza le risposte, in modo che mi possa fornire una traccia su cui partire. Per mia fortuna la collega è molto rapida ed essenziale e mi ha lasciato molto margine.

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Mi faccio sotto e con un: Scusami, ti posso chiedere anche io una intervista? Io non ho registratore o cameraman, perché scrivo per un piccolo blog”

Ok, riconosco che l’ho messa un pochino sull’empatia spicciola, quasi a muoverlo a compassione, ma mi è bastato il suo: “Certo, anzi meglio!”

Per capire che il giovane Marco, classe ’82 (lui dice di non esserlo giovane, ma a 32 anni lo si è ancora!) è una persona alla mano e molto comunicativa. Una sua affermazione precedente mi ha molto colpito e, per tanto, chiedo di approfondirne l’aspetto: “Marco poco fa hai asserito che tu vai in giro per il mondo alla ricerca di suoni naturali che già esistono, allo scopo di campionarli per poi renderli più interessanti. Cosa intendi per più interessanti?” 

A questa domanda Cecotto mi pone, a sua volta, una domanda: Hai visto la performance che ho realizzato? Che te ne è sembrato? Cosa hai provato?”

Ed è questo il punto nevralgico della performance, la capacità di condurre lo spettatore ad uno stato emotivo prestabilito.

Il lavoro di Marco è proprio questo. Conscio che ognuno di noi prova emozioni differenti in base alla propria personalità e predisposizione, sa anche che determinati suoni portano a determinate sensazioni. Per tanto organizza i rumori attraverso lo studio e la previsione che essi susciteranno allo spettatore, ad esempio un fischio sibilante porterà alla percezione di un qualcosa di spigoloso e ruvido. Ogni strumento ha il suo suono e quindi è possibile programmare la performance “emotiva”.

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La sensazione che Cecotto ha voluto creare questa sera è di un viaggio attraverso una atmosfera cupa e sotterranea, come quando si sente il vento scorrere attraverso le buie gallerie delle metropolitane, per poi salire in un cielo aperto e tempestoso, dove i tuoni echeggiano nell’aria, in un ambiente che oserei dire post/apocalittico. La performance, che prevede l’installazione di un hardware capace di interagire con la luce attraverso delle fotoresistenze per emettere suoni, inizia infatti con lampade fredde per giungere a quelle calde allo scopo di provocare quasi una sofferenza fisica. Il tutto però accompagnando lo spettatore in modo appunto organizzato, coinvolgendolo e a tratti anche scioccando lo spettatore con il suono.

I suoni sono così concreti ma trattati in modo astratto, atti a suggerire e alludere, piuttosto che dichiarando quello che sta avvenendo. Facendo per tanto leva su suggestioni più ataviche. Non è un caso che la prima volta che Marco Cecotto fece questa performance fu presso una sala caldaia di Nottingham in Inghilterra, dove le persone entrarono 20 alla volta ed il “clang” del portone di ferro che si chiude dietro le spalle degli astanti, ne segnò l’ inizio.

Qui a Palazzo Re Enzo per la sua prima volta al roBOt 07, il risultato, nonostante il salone risulti più dispersivo e “luminoso” (per così dire), è comunque riuscito.

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robot-2014-2pDJ Memoryman Aka Uovo
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Ovviamente ci si chiede come nasce il desiderio e la volontà di andare in giro a campionare i “suoni del mondo” ed è lo stesso Marco a risponderci:

«Inizialmente suonavo il basso ed ero dedito al metal e al noise e proprio la passione per il rumore mi ha spinto ad abbandonare l’uso di strumenti “musicali” e a rivolgermi piuttosto a mezzi tecnici più adatti a catturare e gestire tutto il rumore possibile – l’udibile – dai suoni della natura a quelli prodotti dall’uomo. Ovviamente nel modo più economico possibile! Ed è stato così che all’inizio ho scelto di affidarmi principalmente a microfono e registratore, per poi imparare a confezionarmi da solo, “su misura”, l’hardware e il software necessario a poter utilizzare questi suoni dal vivo

A questo punto non mi rimane che congedare Cecotto con una ultima domanda, quella di rito: “Prossimo appuntamento o programma?”

Presto Marco si esibirà a Milano in una collettiva, dove è stato richiesto di presentare un’opera del passato ed una del presente che siano tra esse collegate…un work in progress che aspetteremo curiosi di assistere.

Ora, salutando questo bravo esecutore, mi concedo un po’ di sana distrazione con il live musicale di “Fort Romeau” e il DJ “Memoryman Aka Uovo” che sulle note della console ci concede una performance in presa diretta, grazie ad un calligrafo che riporta queste parole:

“In futuro ogni arte è nelle mani di chi la pratica con più energia”
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Articolo a cura di Alberto Messina